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Guerra e hate speech

No, i rifugiati non possono essere "aiutati a casa loro"

Nemmeno la guerra ferma i leoni da tastiera. Dai primi istanti in cui è iniziata l'emergenza Ucraina e molti italiani hanno aperto le loro braccia, tanti altri hanno aperto i social per vomitare tutto il loro odio, su una situazione che certamente non vorrebbero provare

Meno di un mese di guerra e tutta la cattiveria e l'egoismo contro i rifugiati sono stati manifestati sui social così come nelle piazze italiane. C'è un confine che non si dovrebbe oltrepassare in una società civile ed è quello di incolpare le vittime. Soprattutto in guerra o in una qualsiasi situazione in cui la loro incolumità viene minacciata da qualcun altro. Nemmeno la guerra ferma i leoni da tastiera. Dai primi istanti in cui è iniziata l'emergenza Ucraina e molti italiani hanno aperto le loro braccia, tanti altri hanno aperto i social per vomitare tutto il loro odio, su una situazione che certamente non vorrebbero provare. 

La tiritera è la stessa, si abusa del diritto di manifestare il proprio pensiero abbandonando la pubblica decenza. Da quel maledetto 24 febbraio ricordo anche il primo commento scioccante che mi è capitato di leggere: "Aiutiamoli a casa loro". Una frase sentita e risentita che, però, in caso di guerra, non solo stona, ma denota una certa ignoranza di chi è convinto di aver detto qualcosa di sensato. Sarebbe interessante se queste persone provassero anche solo a chiedere dove preferirebbero vivere tutti questi rifugiati, se in Italia in un centro condiviso con sconosciuti e lontani dagli affetti, oppure nella loro terra, dove non hanno bisogno di qualcuno che traduca per loro ogni singola frase, magari con quegli uomini che oggi non possono uscire dall'Ucraina e che devono rimanere a disposizione della nazione. Carne da macello per una guerra che sicuramente non hanno voluto loro.

rifugiati in fuga dalla guerra-2

Ci sono donne che non fanno altro che piangere per aver lasciato lì la loro vita, un marito, una casa, la loro storia. Donne che riescono a trovare pace nella loro testa solo perché sanno che scappando hanno potuto dare una speranza di vita in più ai loro bambini e pregano ogni notte che tutto quel dolore possa sparire, sperando di riabbracciare presto chi non può scappare. È il caso di una cara amica, come ce ne sono tante oggi nei centri e nelle case di accoglienza. Una giovane donna che prima di scappare ha sperato fino alla fine che la guerra finisse e di non dover fare questa scelta. Una donna la cui quotidianità è stata interrotta dal frastuono di un missile lanciato vicino a casa. Una mamma e moglie che ha raccolto quanto riuscisse a portare con sé, compreso l'album di foto del matrimonio, ha salutato suo marito con il cuore in frantumi e prendendo per mano il figlio di soli 5 anni ha iniziato il viaggio della speranza. Un interminabile viaggio, durato giorni, costato caro e non solo economicamente.

album di matrimonio-2

Lei e il suo bambino sono arrivati in Italia, faticando a comprendere anche solo i cartelli con le indicazioni in aeroporto, scritti con un alfabeto che lei conosce a malapena. Una donna che oggi vive tra un senso di colpa e una crisi di pianto del suo bambino che, al minimo rumore sconosciuto, trema e scappa a nascondersi, perché teme essere un avvertimento che qualcosa di terribile stia per accadere, un altro incubo dal quale scappare. "L'unica cosa che mi permette di non sentirmi in colpa, è sapere che mio figlio è vivo" continua a ripetere, mentre accarezza la foto di suo marito, con due occhi azzurri come il cielo e colmi di lacrime. Siete davvero convinti che queste persone vogliano sottrarre qualcosa a voi? Siete ancora sicuri che non possiate aiutare? Potrebbe capitare a chiunque, la guerra non è così lontana come tanti credono. 

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