Risto3 condannata: dovrà reintegrare una dipendente licenziata

La vicenda prende le mosse nel novembre 2010 quando Matta, impiegata con mansione di barista presso il ristorante Giulia, chiedeva tramite il sindacato che le fosse garantito un supporto nelle ore di punta come stabilito da un medico e in conseguenza della certificazione di una invalidità al 50%. In virtù delle difficoltà organizzative della coop nel garantire questo supporto, Risto3 propose alla signora Matta il trasferimento presso il bar degli uffici della Provincia al Centro Europa. La lavoratrice accettò l'incarico con riserva e dal 1° marzo 2011 iniziò a prestare servizio presso il Centro Europa. 

 

Come accertato dal giudice Flaim, nel concordare il trasferimento, Risto3 omise di informare la dipendente sia del fatto che il bar del Centro Europa non era di proprietà della società, ma gestito in appalto, sia del fatto che lo stesso appalto scadeva ufficialmente il 28 febbraio 2011 ed era quindi gestito in regime di proroga fino a nuova gara. Per il giudice, Risto3 ha violato il dovere di correttezza e buona fede nei confronti della dipendente sottoponendola al rischio – poi effettivamente concretizzatosi - di poter essere licenziata per giustificato motivo oggettivo, nel momento in cui l'appalto non fosse stato rinnovato. Proprio quello che accadde nel luglio del 2011 quando Matta fu licenziata una priva volta, licenziamento poi rinnovato nel novembre 2011. 

 

Come scrive il giudice Flaim nella sentenza emessa il 26 giugno scorso, «è evidente che Risto3, omettendo di informare la dipendente dell'imminenza della scadenza del rapporto di appalto avente ad oggetto la gestione del bar Centro Europa, non ha rispettato gli obblighi di correttezza e buona fede. La slealtà della società datrice appare ancora più grave atteso che, invece, l'unità produttiva di provenienza era del tutto immune da problemi di questo tipo essendo gestita da Risto3 a titolo proprietario». La comunicazione delle condizioni dell'appalto, continua il giudice Flaim, «non avrebbe comportato alcun apprezzabile sacrificio per la società datrice, ma avrebbe soltanto reso più difficile l'acquisizione del consenso della lavoratrice al trasferimento».